Il Time Out – perché non rappresenta uno strumento di disciplina efficace

Il Time Out – perché non rappresenta uno strumento di disciplina efficace

 

Ora basta! Vai nella tua stanza e rifletti su quello che hai fatto!

 

È sufficiente questa frase per riassumere funzionamento e scopo presunto del cosiddetto “Time Out“.

Questo strumento disciplinare inizia a svilupparsi a partire dagli anni Sessanta del Novecento come alternativa più efficace alle violente punizioni corporali.

Invece di sculacciarlo, i genitori impongono al bambino di allontanarsi dalla situazione critica (andando in camera o sulla famigerata sedia di fronte al muro) e rimanere da solo per un po’ a riflettere su quanto fatto, per poter così riprendere il controllo di sé stesso.

Apparentemente sembra essere un metodo efficace: la sculacciata viene bandita e la situazione problematica superata.

Ma siamo davvero certi che il Time Out sia uno strumento di disciplina efficace?

Ebbene, i più recenti studi sullo sviluppo cerebrale infantile dicono di no.

Vediamo insieme perché questa tecnica non consente di raggiungere pienamente obiettivi disciplinari adeguati e come invece intervenire utilizzando tecniche più dolci, efficaci e rispettose.

 

Perché il Time Out non funziona

 

Pinterest

 

Torniamo a riflettere sullo scopo che il Time Out si prefissa:  esso dovrebbe essere quello di aiutare il bambino a recuperare la calma e, contestualmente, riflettere sulle proprie azioni.

Ebbene, potete essere certi che difficilmente il vostro bambino impiegherà quei minuti di isolamento per fare ciò.

Chi ha fatto esperienza di questa tecnica, soprattutto con i bambini più piccoli, sa bene che esso produce il più delle volte esattamente l’effetto opposto.

Il bambino posto in isolamento forzato, infatti, accresce la propria rabbia e il sentimento di frustrazione, divenendo, paradossalmente, ancor meno in grado di riflettere sulle proprie azioni che in principio.

Può accadere che, sul momento, il bambino si sforzi di contenersi per uscire dalla situazione di solitudine, dando così l’impressione al genitore di aver raggiunto il proprio obiettivo disciplinare. È ampiamente probabile però che in quei minuti all’angoletto egli non abbia riflettuto sulle azioni compiute, quanto piuttosto pensato a quanto sia stato cattivo il genitore a metterlo in “punizione” lì da solo.

Ecco il vero punto di debolezza del Time Out: l’isolamento.

Il bambino, soprattutto nei primi anni di vita, ha un profondo bisogno relazionale.

A questo va aggiunto che il suo sistema nervoso è ancora in via di formazione e definizione, per cui egli non è ancora in grado di riconoscere, regolare ed esprimere il complesso delle proprie emozioni, soprattutto quando esse sono particolarmente intense.

Può dunque capitare che un evento per noi particolarmente insignificante (ad esempio la fine del succo di frutta) possa generare una reazione apparentemente esagerata da parte del bambino, che però non è altro che il suo miglior tentativo di comunicarci la sua delusione e la tristezza.

Di fronte a tale comportamento noi possiamo decidere di ricorrere al Time Out, costringendo il nostro bambino a starsene da solo a riflettere, ma così facendo rischiamo solo di fargli sperimentare un profondo senso di abbandono proprio nel momento in cui egli avrebbe più bisogno del nostro aiuto.

Vorrei qui citare Daniel Siegel, docente di Psichiatria presso la University of California School of Medicine di Los Angeles:

 

Se la costringiamo a starsene seduta da sola a riflettere potremmo anche comunicarle indirettamente il messaggio che non vogliamo stare con lei quando ‘si comporta male’. Un genitore non dovrebbe comunicare il messaggio che starà con i figli e darà loro amore e affetto solo quando ‘fanno i bravi’ o sono di buon umore.

Accetteremmo, noi, di stare in un rapporto come questo?”

 

Quali alternative, allora, al Time Out?

 

prisyrh.wordpress.com

 

 

Ignorare un bambino che ha perso il controllo di sé, ponendolo in isolamento, è dunque altamente inefficace oltre che dannoso.

Dobbiamo sforzarci di comprendere che un bambino in questo stato sta soffrendo, e molto: in queste situazioni infatti entra in circolo il cortisolo, conosciuto anche come “ormone dello stress”, che influisce in maniera molto negativa sul suo stato psicofisico.

 

Proviamo a pensare all’ultima volta che ci siamo sentiti davvero tristi oppure arrabbiati o agitati. Come ci saremmo sentiti se una persona cara ci avesse detto: ‘Devi calmarti’ oppure ‘Stai da solo finché non ti sarai calmato e non sarai di nuovo simpatico e di buon umore’?

Non è forse vero che risposte come queste ci avrebbero fatto stare ancor peggio?

Eppure sono proprio le frasi che diciamo in continuazione ai nostri figli. Ma, così facendo, in realtà intensifichiamo il loro malessere, e questo li porta ad agire ancor più impulsivamente.”

Daniel Siegel

 

La risposta a questo tipo di situazioni, quindi, non deve essere l’isolamento ma la connessione.

Certo, ciò non sempre è semplice. Ci sono momenti in cui anche noi adulti siamo stanchi o stressati e accogliere la ribellione o la rabbia del nostro bambino risulta davvero impegnativo.

Tuttavia se si vuole davvero strutturare un rapporto parentale improntato al rispetto e volto a favorire contestualmente disciplina attiva e relazione, è nostro compito fare il possibile per compiere quello sforzo in più.

Al Time Out, quindi, dovremmo sostituire una sorta di Time In: sediamoci con lui e, prima di ogni altra cosa, compiamo un tentativo di connessione. Non è possibile, infatti, trasmettere alcun insegnamento fino a quando il bambino non ha recuperato il controllo delle proprie emozioni. Per questo risulta assolutamente inutile metterci lì a “fargli la predica”.

Spesso, invece, è sufficiente una presenza discreta o un contatto amorevole, accompagnati da tanta empatia (sia a livello verbale che non).

Cerchiamo di comprendere la ragione celata dietro quel comportamento (che non è un “capriccio“!) e dimostriamo al nostro bambino che può ricevere da noi ascolto e sostegno.

Solo quando ciò sarà stato fatto sarà possibile sostenere il bambino nel guardarsi dentro, analizzando la situazione insieme a noi, con il nostro aiuto.

In questo modo porremo dei limiti al comportamento del bambino, ma lo aiuteremo anche ad individuare un collegamento tra tale comportamento e le possibili soluzioni, rendendolo in grado di capire come sistemare le cose.

Ancor più importante, però, è il fatto che gli trasmetteremo un messaggio fondamentale: “Io sono qui con te“.

 

In conclusione

 

Nelle relazioni con i bambini non esistono formule o ricette magiche.

Questo approccio dolce e rispettoso alla disciplina ha come scopo quello di crescere individui sicuri e autonomi attraverso una relazione sana e accogliente, fondata sull’amore incondizionato.

Attuare un approccio di questo tipo non è sempre semplice. Si compiono sbagli: a volte di più a volte di meno, ma si compiono.

Di una cosa possiamo però essere certi: più saremo in grado di rispondere al nostro bambino in maniera empatica, accogliente e aperta, migliore sarà il nostro rapporto con lui e la solidità del nostro legame.

 


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