La prima Casa dei Bambini di Maria Montessori

La prima Casa dei Bambini di Maria Montessori

 

È passato oltre un secolo da quel 6 gennaio 1907, giorno in cui Maria Montessori inaugurò la prima Casa dei bambini nel quartiere di San Lorenzo, in via dei Marsi 58.

Un progetto sociale ed educativo, che porterà a quella che Maria Montessori amava definire la “scoperta del bambino”: la rivelazione di un bambino nuovo, sconosciuto, troppo a lungo soffocato. La vera natura del bambino, che è fatta di calma, concentrazione, pace.

Di pari passo a tale scoperta si delineerà un nuovo metodo educativo, teso  ad aiutare il completo dispiegamento della vita, assecondando i movimenti spontanei e assegnando all’educazione sensoriale un ruolo centrale nello sviluppo psicocognitivo del bambino.

Credo sia fondamentale, per chi non abbia ancora avuto modo di farlo, leggere le parole pronunciate dalla stessa Montessori in occasione dell’inaugurazione della seconda Casa dei bambini nel quartiere di San Lorenzo, avvenuta nell’aprile del 1907.

Il discorso è tratto da La scoperta del bambino, e mostra pienamente la consapevolezza della Montessori rispetto alle problematiche sociali del tempo e la sua volontà di contribuire alla loro risoluzione.

 

Maria Montessori

Discorso inaugurale per l’apertura della seconda

«Casa dei bambini »,1907

 

“Può darsi che la vita dei poveri sia una cosa, che qualcuno di voi, qui presente, non abbia mai considerato in tutta la sua degradazione. Può darsi che abbiate sentito la miseria della estrema povertà umana soltanto attraverso le pagine di qualche grande libro, o la vibrante voce di un grande attore. Supponiamo che in un certo momento una voce vi gridi: – Va’ e guarda queste case di miseria e della più nera povertà. Poiché esse sono sorte, fra il terrore e le sofferenze, oasi di felicità, di nettezza e di pace. I poveri avranno una casa propria. Nei quartieri dove regnavano la povertà e il vizio si va svolgendo un’opera di redenzione morale; le coscienze del popolo saranno redente dal torpore del vizio, dalle ombre dell’ignoranza. Anche i piccoli hanno la loro « casa ». Le nuove generazioni vanno incontro a un’era, in cui la miseria non sarà più deplorata, ma distrutta, in cui le oscure caverne del vizio e della malvagità saranno divenute cose del passato, e nessuna traccia di esse rimarrà. Con quali nuove e mutate emozioni ci affretteremo a venir qui, come i saggi guidati da un sogno e da una stella si affrettarono a Betlemme. Ho parlato così affinché voi possiate intendere il grande significato, la vera bellezza di questa umile stanza, che sembra parte della casa stessa, quasi destinata dalla mano di una madre all’uso e alla felicità dei bambini del quartiere.

Questa è la seconda « Casa dei Bambini » aperta nel malfamato quartiere di San Lorenzo. Questo quartiere è molto noto: ogni giornale della città reca quasi quotidianamente resoconti dei suoi misfatti. Eppure ci sono molti che ignorano le origini di questa parte della città. Non si pensò mai di costruire qui un quartiere di case popolari. Infatti, San Lorenzo non è il quartiere del popolo, è il quartiere dei poveri. È il quartiere dove vive l’operaio mal retribuito e spesso disoccupato in una città non industriale come Roma, dove alla rinfusa vivono anche l’ozioso e il vigilato che ha scontato in prigione la sua condanna. Il rione di S. Lorenzo sorse tra 1’84 e 1’88, all’epoca della grande febbre edilizia; e nessun criterio sociale e igienico guidava le nuove costruzioni; si costruiva pur di coprire di mura metri e metri quadrati di terreno; più se ne ricopriva e maggiori sovvenzioni se ne ricavavano da banche e istituti, con una completa incoscienza dell’avvenire disastroso che si preparava. Conseguenza naturale la nessuna preoccupazione dello stabile che si creava, poiché in nessun caso sarebbe rimasto in proprietà di colui che lo costruiva.

 

sanlorenzoinnaugurazione

 

Scoppiata la inevitabile crisi edilizia intorno all’88-90 quelle case malamente ultimate rimasero per lungo tempo disabitate; poi, poco per volta, cominciando a risentirsi il bisogno delle abitazioni, vennero riempiendosi d’inquilini; e poiché coloro i quali erano rimasti possessori di quei vasti casamenti non volevano né potevano ai capitali già perduti aggiungerne dei nuovi, le case stesse già antiigienicamente costruite e peggio ancora ridotte ad abitazioni provvisorie, servirono di ricovero alla classe più povera della capitale. Gli appartamenti, di cinque, sei, sette stanze, andavano a prezzi vilissimi in relazione allo spazio, ma troppo alti per ogni singola famiglia. Di qui il subaffitto e la speculazione: l’agglomeramento, la promiscuità, l’immoralità.

Quando si entri in una di queste abitazioni, ciò che colpisce è il buio, che non fa distinguere di pieno mezzogiorno un particolare della stanza. Quando parliamo di questioni sociali, vagando nelle nuvole della nostra fantasia, senza prepararci con una osservazione positiva della realtà delle cose e discutiamo se i bambini delle scuole debbono o no studiare e fare i compiti a casa, immaginiamo che il più povero possa forse scrivere in terra accanto a un pagliericcio; e vogliamo fondare biblioteche circolanti perché i poveri leggano in casa, e vogliamo stampare opuscoli di propaganda igienica e educativa per diffonderli come lettura domestica tra le genti più povere, noi ci mostriamo profondamente incoscienti dei loro bisogni. Molti di essi non hanno luce per leggere. C’è per questo proletariato un problema profondo prima di quello della elevazione intellettuale: il problema della vita.

Qui pei fanciulli che nascono bisogna mutare la frase consueta: essi non vengono alla luce, vengono alle tenebre, e crescono tra le tenebre e i veleni dell’agglomeramento umano. Necessariamente sudici, perché l’acqua disponibile in un appartamento povero di varie stanze è appena sufficiente a tre, quattro persone ed è invece distribuita tra venti e trenta: basta appena per bere!

Se pensiamo all’idea dogmatica e poetica che ci siamo fatti della casa, elevata fino al significato quasi sacro della « home » inglese, il tempio chiuso dell’intimità inaccessibile a chi non è caro; ove fra mura adorne fioriscono per la pace delle anime i più dolci sentimenti; e se riflettiamo al gran contrasto, e alla crudeltà d’infondere come sentimento educativo questo della casa, in tutti – mentre tanti non hanno casa ma soltanto mura luride, ove gli atti fisiologici della vita e le turpitudini sono esposti alla berlina, ove non è intimità mai, né gentilezza e spesso non vi è luce, né aria, né acqua -, dobbiamo allora concludere che non possiamo parlare in astratto, di casa, e farne motivo generico di educazione delle masse, e parlarne come del fondamento che dà, con la famiglia, saldezza alla compagine sociale.

Così che a queste genti e più decoroso e più igienico rifugiarsi nella strada; e nella strada fanno consueta dimora i fanciulli. Ma spesso le strade sono teatro di delitti di sangue, di spettacoli immondi quasi inconcepibili per noi. Spettacoli di estrema bruttura, più profonda assai delle barbarie, sono possibili qui alle porte di una città cosmopolita, madre di civiltà, e regina delle arti belle, per un fatto nuovo, che i passati secoli non conobbero: l’isolamento delle masse povere.

Nel Medio Evo si isolavano i lebbrosi; i cattolici isolarono nei ghetti gli ebrei; ma non fu mai la povertà considerata come un pericolo e un’infamia tali da doversi isolare. Anzi i poveri vissero mescolati ai ricchi, e fu argomento sfruttato dalla letteratura fino a noi, fino a Victor Hugo, fino ai tempi della nostra infanzia nelle scuole, il contrasto tra povero e ricco: tra il palazzo che toglie la luce ai vicini tuguri, tra il dramma delle soffitte e la festa da ballo del primo piano. Ed era argomento consueto di educazione morale il racconto del soccorso inviato dalla principessa nella adiacente casina del povero, ovvero dalle buone bambine ricche alla donna malata nella soffitta. Tutto ciò sarebbe oggi senza senso di realtà. I poveri non hanno più alcun esempio di gentilezza dai vicini più fortunati e non hanno più speranza di soccorso, in caso di estremo bisogno, dai vicini che sono ricchi; queste briciole che si gettavano ai poveri, anche queste abbiamo loro tolto; agglomerandoli lontano da noi, fuor dalle mura della città, e lasciandoli a se stessi nell’abbandono, nella disperazione, nella reciproca scuola di brutalità e di vizio. Siamo venuti così cercando dei focolari infetti, che dovrebbero significare pericolo e minaccia, per chi ha coscienza sociale, per la città che si è depurata all’interno da tutto ciò che è brutto, e che si è ammalata di cancrena, volendo farsi tutta bella e linda, perseguendo un aristocratico ideale estetico.

Quando sono venuta la prima volta per le vie di questo quartiere, dove la gente per bene passa solo dopo morta, ho avuto l’impressione di trovarmi in una città dove fosse avvenuto un gran disastro. Tale infatti è l’aspetto di questo lembo di città costruita su una terra vicina all’estrema dimora dei cittadini.

Mi sembrò che un lutto recente gravasse sulla popolazione che si aggirava per le strade muta, con un aspetto stupito e quasi spaventato. L’alto silenzio sembrava che significasse una vita collettiva interrotta, spezzata: non una carrozza, nemmeno il vocio lieto, popolare dei venditori ambulanti, non il suono di un organetto girovago in cerca del soldo. Nemmeno ciò che è già proibito come espressione di povertà e di interiore civiltà nell’interno di Roma si trovava qui a ravvivare quel grave silenzio triste.

Osservando le vie coi loro avvallamenti, e i sassi sporgenti dal sottosuolo, si poteva supporre che quel disastro fosse stato una grande inondazione che avesse trasportato via tutta la terra; ma osservando le case tutte smantellate negli androni, coi muri scoperti o mancanti qua e là di mattoni, veniva fatto di pensare se fosse stato un terremoto il disastro che aveva afflitto il quartiere. Osservando che tra tanta popolazione non esiste un negozio, nessun magazzino popolare di quelli ove si vendono oggetti di prima necessità e a così basso prezzo da sembrare accessibile a tutti; nessun negozio, nessun consumo fuorché osterie luride, aprenti numerose le loro bocche fetide ai passanti delle vie, il cuore sentiva che il disastro gravante, luttuoso, su queste genti, è la miseria congiunta al vizio.

Tale stato di cose doloroso e pericoloso commosse molte anime e svegliò molte coscienze, e vi fu chi venne a iniziarvi generose opere di beneficenza. Si può dire che ogni miseria ispirò una forma di rimedio, e tutto vi fu tentato; dall’igiene di alcune abitazioni alle crèches, agli asili infantili, agli ambulatori. Ma quale risultato? La beneficenza sembra poco più di un’espressione di lamento; e la pietà tradotta in azione. Per la mancanza di continuità di mezzi e d’indirizzo, pochi benefici risultati essa può dare, costretta come è a conservare e restringere i soccorsi a un troppo limitato numero di persone. Mentre la grandezza e il pericolo del male reclamavano un’opera redentrice per la collettività, e vasta nei suoi indirizzi d’azione e nei suoi mezzi, capace di prosperare della prosperità da essa stessa creata.

L’Istituto Romano di Beni Stabili si pose, come programma, l’acquisto di beni stabili urbani al fine di metterli in valore e amministrarli con particolari criteri. Tra i primi edifici acquistati fu compresa buona parte del quartiere di San Lorenzo. Si trasformarono le case con criteri di modernità, sia sotto l’aspetto edilizio, sia igienico e morale. La trasformazione degli edifici, e in particolare quella dei grandi in piccoli appartamenti, compie un’opera sociale isolando in alloggi separati le singole famiglie. Ma il progetto andando oltre ha inteso dare non solo una casa libera, ben soleggiata ed aerata, bensì anche linda, intatta, quasi lucente di purezza e di verginità. Tanto benessere non è tuttavia senza peso per chi ne gode: occorre pagare una tassa attiva di cure, di buona volontà. Chi meglio conserverà la propria casa avrà un premio annuale; e gli inquilini tutti diventeranno concorrenti in una gara sana e nobilitante d’igiene pratica, resa possibile e facile dai compito così semplice di conservare. Manutenzione perfetta, che mantiene lo stabile intatto, senza una sola macchia, proprio come intatti e lucenti sono i marmi delle storiche basiliche. L’edificio dove noi ci troviamo e dove oggi s’inaugura la seconda « Casa dei bambini » è da due anni sotto la protezione unica e sotto l’opera esclusiva di manutenzione degli inquilini. Ebbene, poche case dell’alta borghesia potrebbero competere per pulizia e per freschezza con queste abitazioni di poveri.

L’effetto è quindi sperimentato e il popolo acquista così, insieme con il sentimento della casa, quello della pulizia, che fa parte del sentimento estetico, educato anche dagli ornamenti naturali: piante numerose, rampicanti, vasi di fiori nei cortili. Ecco sorgere un orgoglio nuovo nel quartiere: l’orgoglio collettivo di avere il casamento meglio conservato, di aver cioè acquistato un grado più elevato di civiltà. Non solo si abita una casa, ma la si sa abitare e rispettare.

È una prima spinta nel bene; dalla casa verrà la persona. Non si può tollerare il mobile sudicio nella casa pulita e nella casa pulita nasce il desiderio della pulizia personale. L’Istituto ha fornito anche ogni casamento di bagni: in un locale apposito destinato a bagni, vasche o docce con acqua calda e fredda, dove tutti gli inquilini possono andare a turno, come usavano andare a lavare a turno i panni nelle fontane del casamento.

Ma nel raggiungere l’ideale della manutenzione perfetta semigratuita dei suoi stabili, si incontrava una difficoltà nei bambini di età inferiore a quella obbligatoria per la scuola che, abbandonati durante le ore dei giorno dai parenti lavoratori, incapaci d’intendere il senso di emulazione e il desiderio del premio che sono gli stimoli educativi al rispetto della casa pei loro genitori, divengono i vandali incoscienti dell’edificio.

Ed ecco l’altra riforma che rientra, indirettamente, nelle spese di manutenzione, e che si può chiamare la più brillante trasformazione di spese. La «Casa dei bambini » viene guadagnata dai genitori col tener pulito lo stabile, col risparmiare cioè le spese di manutenzione. Corona meravigliosa di benefici morali.

Nella «Casa dei bambini », riservata esclusivamente ai piccini del casamento che non hanno ancora l’età della scuola, le madri lavoratrici possono lasciare tranquille i figliuoli, con loro immenso beneficio, con risparmio di forza, con grande sollievo di libertà. Ma anche questo beneficio non è senza tassa di cure e di buon volere: lo dice il regolamento appeso sulle mura dello stabile: « Le madri hanno l’obbligo di mandare i loro bambini puliti e di coadiuvare all’opera educativa della direttrice».

Due obblighi: cioè la cura fisica e morale dei propri figli. Se il bambino dimostrerà con le parole, col contegno, che in casa sua viene guastata l’opera educativa della scuola, essa graverà senza remissione sulle braccia dei genitori ignavi e incapaci del proprio miglioramento. Bisogna cioè sapersi meritare il beneficio d’avere in casa il grande vantaggio di una scuola pei figliuoli più piccoli.

E basta la « buona volontà » perché, in quanto al saper fare, il regolamento lo dice, le madri dovranno andare almeno una volta la settimana a conferire con la direttrice, dando notizie del proprio bambino e là potranno raccogliere i consigli che la direttrice darà a loro vantaggio. Consigli illuminati sulla salute e sulla educazione dei piccino, poiché nella «Casa dei bambini » è preposto, insieme a una maestra, anche un medico.

La direttrice è sempre a disposizione delle madri e la sua vita di persona colta e civile è costante esempio agli abitanti della casa, perché essa ha l’« obbligo imprescindibile » di alloggiare nel casamento e di essere quindi la coinquilina delle famiglie di tutti i suoi allievi. Fatto di grande importanza. Tra queste persone, in queste case tra le quali di nottetempo nessuno si aggira senza essere armato, va a vivere della loro stessa vita una gentile donna, di elevata cultura, un’educatrice di professione, che dedica tutto il suo tempo e la sua vita a educare. Vera missionaria e regina morale tra il popolo, ella, se ha un sufficiente tatto e un sufficiente cuore, coglierà mirabili frutti di bene dalla sua opera sociale.

Questo caso è veramente nuovo. Vi fu già il tentativo fatto da persone generose di andare a vivere tra i poveri per educarli; ma l’opera non è attuabile senza che la casa dei poveri sia igienica e renda possibile la coabitazione di genti socialmente più elevate, né si può riuscire all’intento senza una specie di coercizione al bene, che obblighi, con vantaggi vari, a ben disporsi sotto il giogo della civiltà la popolazione del casamento intero.

Il caso è nuovo anche per l’organizzazione pedagogica della « Casa dei bambini ». Essa non è un ricovero passivo dei fanciulli: ma una vera scuola di educazione, i cui metodi sono ispirati ai razionali principi della pedagogia scientifica. Viene seguito e diretto lo sviluppo fisico dei bambini, che sono studiati dal loro lato antropologico; gli esercizi del linguaggio, dei sensi e della vita pratica formano le basi principali delle cognizioni. L’insegnamento è eminentemente oggettivo, e dispone di una ricchezza non comune di materiale didattico. Ma su ciò non è possibile addentrarci: basti dire che già esiste, annessa alla Scuola, una sala pei bagni caldi e freddi per i bambini; e, dove è possibile, una distesa di terreno ove i fanciulli potranno coltivare il campicello sperimentale.

Ciò che importa rilevare qui sono i progressi pedagogici che la « Casa dei bambini » raggiunge come istituzione. Chi ha pratica della scuola e dei principali problemi pedagogici che la riguardano sa come venga considerato un grande principio – principio reale e quasi irrealizzabile – l’armonia degli intenti educativi tra la famiglia e la scuola. Ma la famiglia è qualche cosa di sempre lontano e di quasi ribelle; una specie di fantasma irraggiungibile per la scuola. La casa è chiusa, non solo ai progressi pedagogici, ma spesso anche ai progressi dell’ambiente sociale. È la prima volta dunque che si vede la possibilità pratica di realizzare il tanto celebrato principio pedagogico. Si mette la scuola in casa: non solo, ma si mette in casa come proprietà collettiva; e si lascia sotto gli occhi dei parenti tutta intera la vita della maestra, nel compimento della sua alta missione.

I genitori sanno che la « Casa dei bambini » è loro proprietà e entra nelle spese della pigione. Le madri possono a tutte le ore dei giorno sorvegliarla, o ammirarla, o meditarla. Essa e in ogni modo uno stimolo continuo a riflessioni e una fonte di benessere evidente c di miglioramento proprio e dei figli. Le madri, infatti, si può dire che adorino la « Casa dei bambini » e la direttrice. Finezze impensate hanno queste ottime madri del popolo per la maestra dei loro più teneri figli; spesso depongono dolci e fiori sul davanzale della finestra della scuola, come un omaggio muto, reverente, quasi religioso. Orbene, allorché dopo tre anni di tale noviziato le madri manderanno alle scuole comunali i loro figliuoli, saranno eccellentemente preparate a coadiuvarne l’opera educativa, ed avranno acquisito profondamente un sentimento raro a trovarsi anche nelle classi più elevate, cioè che bisogna, con la propria condotta e con la propria virtù, meritare il dono d’avere un figlio educato.

Un altro progresso raggiunto dall’istituzione della « Casa dei bambini » riguarda la pedagogia scientifica. Essa, basandosi sullo studio antropologico dell’allievo da educare, toccava solo una parte della questione positiva che tende a trasformarla. Poiché l’uomo non è solo un prodotto biologico, ma anche un prodotto sociale, e l’ambiente sociale degli individui in via d’educazione è la casa con la famiglia. Ora, invano cercherà la pedagogia scientifica di migliorare le nuove generazioni se non giunge ad influire anche sull’ambiente ove le nuove generazioni sorgono e crescono. Tutte le applicazioni d’igiene pedagogica sarebbero vano tentativo se la casa dovesse rimanere chiusa a ogni progresso. Io credo dunque che aver inteso la casa come strumento di essenziale progresso civile, cioè aver risolto il problema di poter direttamente modificare l’ambiente delle nuove generazioni, sia stato rendere possibile l’attuazione pratica dei principi fondamentali della pedagogia scientifica.

Un altro progresso segna ancora la « Casa dei bambini » : essa è il primo passo verso la casa socializzata. Si gode nella propria abitazione del vantaggio di poter lasciare i piccoli figli in luogo sicuro, non solo, ma atto a migliorarli: e sono tutte le madri a poter godere di tale immenso vantaggio, allontanandosi di casa per i propri lavori.

Finora soltanto una classe sociale godeva di tale privilegio; erano le donne ricche, le quali potevano allontanarsi dai figli per le loro occupazioni mondane, lasciandoli nelle mani di una istitutrice o di una bonne. Oggi le donne del popolo che abitano in queste case riformate possono dire di godere dello stesso privilegio; non solo, ma possono anche aggiungere che il medico di casa veglia giornalmente su di loro e dirige la loro sana crescenza. Solo le grandi dame inglesi hanno l’elegante « carnet maternel » ove si annotano le principali misure e le date dei principali avvenimenti della crescenza del bambino: le donne del popolo posseggono dei loro figliuoli le « carte biografiche » redatte da maestri e da medici che, fondate su criteri scientifici, divengono un « carnet maternel » perfezionato.

Quali fossero i vantaggi della socializzazione di ambiente noi lo sapevamo: per esempio la socializzazione della carrozza dei tram; la socializzazione delle torce a vento e delle lanterne nella illuminazione costante delle strade; fatti sociali che aumentano la possibilità di comunicazione, prolungano la vita del giorno, sono fonte d’immensa ricchezza. Anche l’enorme produzione di oggetti d’uso nel progresso industriale, che moltiplica favolosamente e rende accessibili a tutti il vestito fresco, il tappeto, la tenda, il dolce, il piatto di maiolica, il cucchiaio di metallo ecc., spargendo un benessere generale e tendendo a livellare nelle apparenze le caste sociali, tutto ciò si era veduto nella sua realtà, nei suoi benefici collettivi, nella smisurata ricchezza prodotta. Ma ancora non si erano socializzate le « persone », persone di servizio e impiegati, come sarebbero appunto le bonne e l’istitutrice, cioè i « familiari ».

Di questo fatto nuovo abbiamo nella « Casa dei bambini » il primo, e per ora, in Italia come all’estero, unico esempio. Il suo significato è alto, poiché corrisponde a un bisogno dei tempi. Infatti, non si può dire che la comodità di lasciare i figli sottragga le madri a un dovere naturale e sociale di primo ordine, qual è quello di curare e di educare la tenera prole. No, perché l’evoluzione economico-sociale chiama oggi la donna lavoratrice nell’ambiente sociale e la sottrae forzatamente a quei doveri che pur le sarebbero cari. La madre ugualmente dovrebbe allontanarsi dai suoi figliuoli, con lo strazio di saperli abbandonati. L’opportunità di tale istituzione non è ristretta alle classi lavoratrici della mano, ma si estende anche alla borghesia dove sono molte le donne lavoratrici del pensiero. Tutte le maestre e le professoresse, spesso costrette anche nel dopo-scuola a lezioni private, lasciano i bambini affidati alle mani di una persona di servizio rozza e sconosciuta, che è talvolta insieme la cameriera e la cuoca. Infatti, alla prima notizia della « Casa dei bambini » molte calorose domande sono state avanzate da parte delle classi borghesi, perché venisse estesa alle loro abitazioni una riforma tanto provvida.

Noi quindi veniamo a socializzare una « funzione materna », una funzione femminile, entro la casa. Ecco nell’atto pratico la risoluzione di alcuni problemi di femminismo che sembravano a molti insolubili. Che sarà dunque della casa – si diceva – se la donna se ne allontana? La casa si trasforma ed assume essa le antiche funzioni della donna.

Io credo che nell’avvenire sociale altre forme di socializzazione verranno, per esempio la infermeria. La donna è la naturale infermiera dei cari di casa sua. Ma chi non sa quante volte oggi ella debba strapparsi, con alto strazio, dal letto dei suoi amati che soffrono, per correre al lavoro? La concorrenza è grande, e le assenze dal proprio dovere minano la solidità del posto sociale donde si trae l’esistenza. Poter lasciare i malati in una « infermeria di casa » dove si possa accedere nei minuti liberi che lascia il lavoro, dove si possa vegliare liberamente la notte, sarebbe un vantaggio sentito. E quale progresso nell’igiene familiare, per tutto ciò che riguarda l’isolamento e la disinfezione! Chi non conosce, per esempio, gli imbarazzi di una famiglia che ha un bambino malato di morbo infettivo e non sa come isolare gli altri figliuoli perché nella città dove fu trasferita di recente per impiego non ha parenti e non ha ancora amici cui affidarli?

Lo stesso si dica (cosa forse effettuabile da noi in futuro, ma non impossibile perché già vantaggiosamente tentata in America) della cucina socializzata, che manda con l’ascensore il pranzo ordinato al mattino nella singola stanza da pranzo intima e quieta. Questo vantaggio sorriderebbe certo più di tutti gli altri a quelle famiglie borghesi che debbono affidare i piaceri della tavola, e insieme la propria salute, alle mani di una donna ignorante di cucina, che brucia le vivande; ovvero che sono costrette a far venire da una trattoria lontana i « piatti del giorno ». Infine, la trasformazione della casa dovrà compensare la per dura presenza in famiglia della donna che è divenuta un lavoratore sociale. La casa porrebbe assolvere a innumeri altri compiti sociali. Noi siamo dunque ben lontani dalla temuta distruzione della casa e della famiglia per la necessità in cui si trova la donna, nell’evoluzione economico-sociale dell’ambiente, di darsi al lavoro retribuito. La casa assume essa stessa le dolci attribuzioni femminili di missione domestica; e un giorno, quando gli uomini forse daranno una somma di denaro al padrone di casa, otterranno in cambio tutto quanto è necessario al comfort della vita, come succede consegnando alla massaia il denaro necessario per procurarsi ogni benessere interno nella vita di famiglia.

La casa tende dunque ad assumere, nella sua evoluzione, un significato più alto e sublime della odierna « home » inglese. Essa non e più solo fatta di mura, siano pure linde, custodi care dell’intimità, simboli sacri della famiglia. Essa vive, ha un’anima, ha quasi braccia tenere c consolatrici di donna. Essa dà la vita morale e il benessere, cura, educa, e, se ci fosse la refezione scolastica, nutrisce i teneri figli: e dà riposo e conforta.

La donna nuova, come farfalla uscita dalla crisalide, si sarà liberata da tutte le attribuzioni che un tempo la rendevano desiderabile all’uomo, come fonte di benessere materiale della esistenza. Ella sarà, come l’uomo, un individuo umano libero, un lavoratore sociale e come l’uomo cercherà il benessere e il riposo nella casa rinnovata e riformata. Per se stessa vorrà essere amata e non come mezzo di benessere e di riposo; e vorrà amore, libera da ogni forma di lavoro servile. Lo scopo dell’amore umano non è quello egoistico di assicurare i propri riposi. Lo scopo dell’amore è di moltiplicare le forze dello spirito libero facendolo quasi divino, e in tanta luce eternare la specie.

È l’amore ideale incarnato da Federico Nietzsche nella donna di Zaratustra, che vuole coscientemente il figlio migliore di se stessa. « Perché mi desideri? » chiede ella all’uomo: « forse per timore della solitudine? … cioè per difenderti dai disagi della vita? In questo caso, va’ lontano da me. Io voglio l’uomo che ha vinto se stesso e si è formato un’anima grande. Io voglio l’uomo che ha conservato un corpo sano e robusto. Io voglio l’uomo che voglia con me unire l’anima e il corpo per procreare il figlio! Il figlio migliore, più perfetto, più forte di quelli che l’hanno creato! »

Migliorare la specie coscientemente, coltivando la propria salute e la propria virtù; ecco quanto resta al connubio familiare degli uomini. Sublime concetto al quale ancora non pensiamo.

E la casa del futuro, vivente, provvida, dolce, educatrice e consolatrice, è il vero e degno nido delle coppie umane, che vogliono in essa migliorare la specie e lanciarla trionfante nell’eternità della vita.”

 

Maria Montessori, Discorso inaugurale in occasione dell’apertura di una “Casa dei bambini” nel 1907, in La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1970.

 

Nonostante gli anni passino il metodo continua a vivere e a diffondersi, e con esso la speranza di pace e di un mondo migliore in cui ogni bambino possa trovare quanto necessario per crescere e realizzarsi pienamente!

 

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